Dalla vittoria di una annosa lite contro Assemini e Uta nasce l’attuale cimitero.
L’antico cimitero (in sardo su gemitoriu) di Sestu, gestito dalla Chiesa, era situato nell’area antistante la chiesa di San Giorgio. Il 13 aprile 1669 il mastro Giuseppe Cavada, picapedrer di Villanova, stipulava un contratto con Antonio Loddo, procuratore della chiesa parrocchiale di Sestu, col beneplacito del canonico prebendato Giovanni Battista Raccis, per realizzare nel cimitero parrocchiale un fabbricato che sarebbe stato adibito ad ossario.
Nel 1841 il cimitero fu trasferito fuori dall’abitato per motivi d’igiene. Venne sistemato nell’area oggi compresa tra le vie Verdi e Donizetti. Il canonico Antioco Murgia, prebendato di Sestu, scrive il 22 ottobre 1849 che le spese del nuovo cimitero, costruito per ordine del Governo, furono a totale carico della Chiesa anche se era tenuto a parteciparvi pure il Comune. Lo stesso canonico Murgia, nei conti dell’eredità del canonico Giovanni Maria Dettori, fa risultare un discarico di lire 2.043,73 impiegate per la realizzazione dell’opera.
Poi fu la volta, nel 1922, dell’attuale cimitero, la cui realizzazione venne finanziata con i proventi derivanti da un indennizzo, dovuto dai Comuni di Assemini ed Uta. Ecco gli antefatti.
Chi attraversa le campagne di Sestu può constatare che esse sono quasi completamente spoglie d’alberi di qualsiasi genere. Pochi gli oliveti, quasi scomparsi i mandorleti, rari gli alberi da frutta sparsi tra i vigneti, una manciata di pini a San Gemiliano, qualche frutteto di recente impianto. Per il resto campi spogli. Questa mancanza di alberi ha creato seri problemi ai Sestesi fin dall’antichità, costretti ad arrangiarsi per avere il legname da costruzione, per gli arnesi da lavoro, la legna da ardere.
Si ha notizia di un bosco plurisecolare di ginepri che, partendo ad una cinquantina di metri dalla chiesa di San Gemiliano, raggiungeva il rio ugualmente denominato, che segna il confine col territorio di Monastir, e si estendeva nelle località di Cucureddus, Piscina sa Murta, Cort’ ‘e Bacas, e su Mulloni crocau, fino al confine col territorio di Serdiana, dove abbondavano cinghiali, cervi e daini. I terreni compresi in queste località erano di proprietà della comunità di Sestu e in ossequio alla politica del governo sabaudo per l’incremento dell’agricoltura in Sardegna, furono concessi gratuitamente in proprietà a coloro che li disboscarono per coltivarli a grano. Così questo bosco scomparve nel giro di un quarantennio a partire dal 1780 e lo stesso Vittorio Angius nell’Ottocento ebbe a scrivere che “mancano in questo territorio gli alberi cedui, e trovansi rare le macchie”. Questi terreni però si rivelarono poco produttivi, per cui successivamente furono abbandonati, crescendovi la macchia mediterranea e la zona venne denominata Boscus nous.
La macchia mediterranea occupava pure la località denominata is boscus, facente parte della zona più ampia detta Magangiosa. Anche questa località de is boscus in effetti era stata sottoposta a coltura già nel periodo della dominazione romana e vi sorse anche qualche abitazione. Sopravvenuto l’abbandono, della zona si impadronì la macchia mediterranea che, probabilmente, raggiunse altezze elevate per cui l’appellativo de is boscus. Questi terreni appartenevano al demanio feudale e, come i terreni comunali de Su Pardu, pure coltivati nel periodo romano, erano adibiti a pascolo. Da queste due località gli abitanti traevano la legna da ardere, ma in quantità insufficiente al fabbisogno, non compensato neppure con l’uso dei sarmenti provenienti dalle vigne, dall’euforbia (sa lua) e dall’inula (sa frisia) che pure crescono nei campi incolti e lungo i confini dei terreni e i bordi delle strade. Questi due arbusti erano usati particolarmente per la cottura delle tegole che si fabbricavano abbondanti a Sestu. Per evitare il taglio indiscriminato degli arbusti e quindi l’estinzione, il Consiglio Comunale ne regolamentò la raccolta proibendone il taglio in determinati periodi dell’anno. Come allora i Sestesi si procuravano la legna necessaria per il riscaldamento nei mesi freddi, per la cottura del pane, per gli arnesi da lavoro e le altre necessità? Per accordi presi col marchese di Quirra nel 1643, avevano il diritto di andare a legnare gratuitamente nei boschi demaniali di Assemini e Uta. I Sestesi sfruttarono la concessione per oltre un secolo senza contrasti di sorta. Il 20 settembre 1785 invece, alcuni mastri carrai di Sestu che, come consuetudine, andarono a far legna nella montagna di Uta, al ritorno, nel passare dentro l’abitato di questo paese, si videro requisire il carico col pretesto che avevano tagliato alberi fruttiferi indisponibili. A nulla valsero le rimostranze dei malcapitati, i quali cercarono di far valere i loro diritti in base agli accordi col marchese. Il sindaco e il ministro di giustizia di Uta, nonché il ministro di giustizia di Assemini replicarono che, se pur gli accordi ci fossero, la concessione avrebbe riguardato sicuramente soltanto la legna da ardere e non anche quella a uso commerciale, come avrebbero destinato i mastri carrai con la costruzione e riparazione di carri e aratri. Perciò, restituirono i carri e i buoi e trattennero il legname.
I danneggiati ricorsero al reggidore del marchesato per far rispettare gli accordi del 1643 e sollecitare il corso dei ricorsi presentati ai giudici. La controversia non fu composta in tempi rapidi e il 1° luglio 1787 il consiglio comunitativo di Sestu, composto dal sindaco Giuseppe Manunza, dai consiglieri di prima classe Raimondo Loddo e Francesco Ibba, i consiglieri di seconda classe Bardilio Spiga e Gemiliano Loi, i consiglieri di terza classe Antonio Massa di Sisinnio e Gemiliano Corrias, riunito come al solito in casa del sindaco, decise di convenire in giudizio il comune di Uta, che non voleva più riconoscere il privilegio accordato ai vassalli di Sestu dal marchese di Quirra.
Il dissidio tra il comune di Sestu e i comuni di Assemini e Uta per legnare i Sestesi nei salti di quest’ultimi, aumentò soprattutto dopo l’abolizione del feudalesimo nel 1839.
Ogni anno il Consiglio Comunale di Sestu determinava il fabbisogno della legna che doveva essere prelevata da questi boschi, poi chiedeva l’autorizzazione e la designazione del sito in cui si sarebbe legnato. Nel 1843, dopo aver ottenuto l’autorizzazione dalle autorità governative, si chiese al Consiglio Comunale di Uta di designare la località destinata ai Sestesi e si rispose che questi dovevano andare al sito detto Imbucada de S. Antoni, assai distante e impervio, di modo chè nessuno vi andò, come nessun Sestese vi era mai stato in precedenza. Di solito si legnava nelle località Arcosu, S. Lucia, Bidda Muscas e altre, che Uta voleva far passare come terreni comunali, avendovi il diritto di pascolo, anziché terreni demaniali come di fatto erano. Non potendo i Sestesi restare senza legna si rivolsero alle autorità governative perché concedessero l’autorizzazione a fare la provvista nei luoghi soliti, sia gratuitamente, sia dietro compenso, come prevedevano le disposizioni vigenti, trattandosi di terreni demaniali. Fu accordata l’autorizzazione mediante il pagamento di lire nuove 220 annue. Nel 1850 la comunità di Sestu aveva bisogno di 724 carri di legna da ardere per le sue 362 famiglie e, possedendo cento carri contro 150 gioghi di buoi, abbisognava di 1.600 pezzi di legname sia per la costruzione di nuovi carri o la riparazione degli esistenti, sia per i vari attrezzi da lavoro. Così, ogni anno il Consiglio comunale ripeteva la richiesta di autorizzazione a prelevare nei salti demaniali di Uta e Assemini i soliti 724 carri di legna, ma l’11 marzo 1854 l’ispettore demaniale forestale del Circondario di Cagliari, disponeva: “Visto l’ordinato del Comune di Sestu in data 8 novembre 1853 col quale implora la continuazione dei diritti d’uso nei Demaniali di Uta ed Assemini. Ritenuto che detto Comune ha sempre goduto dei diritti di ademprivio, nei Boschi, che facevano parte della Baronia di S. Michele, per ciò che concerne il solo legno da fuoco, il sottoscritto è di parere venga accolta favorevolmente la suddetta domanda ai seguenti patti e condizioni:
1° – che sia fatta facoltà agli abitanti di Sestu di poter legnare nei Demaniali d’Uta ed Assemini, per il solo uso di fuoco, e per i puri bisogni di famiglia.
2° – che abbisognando della legna per uso di commercio, dovranno gli utenti avanzare separata domanda, non estendendosi a ciò l’ademprivio.
3° – che i medesimi abitanti si devono attenere strettamente a quanto viene prescritto nel Regolamento Forestale.
4° – che la provvista del legno d’ardere si debba fare dal 15 aprile al 15 giugno, e dal 15 agosto al 15 ottobre.
5° – che in tali epoche ognuno possa estrarre liberamente legno secco ed atterrato per il proprio loro uso, e reale bisogno, purché sia munito d’un biglietto del Sindaco di Sestu, da cui risulta che un tale combustibile è per uso della famiglia.
6° – che in caso d’assoluta mancanza del legno secco ed atterrato da constarsi dagli Agenti dell’Amministrazione Forestale possano li utenti provvedersi di combustibile mediante il taglio di cisto/murdegus, lentischio/moddizis ed altre piante consimili infruttifere.
7° – che non si possa sradicare ceppaie vive, o recidere rami attinenti alla cima delle piante, ma sempre i più bassi e vicini a terra, facendo cadere il taglio sugli alberi più vecchi e intristiti.
8° – che simili tagli debbano essere fatti regolarmente con ferri ben taglienti, procurando di non eseguirli troppo vicino al tronco, ed in modo di danneggiarlo lasciando le intaccature ben lisce, ed in forma inclinata.
9° – che l’infrazione delle condizioni sia punibile a mente dell’art. 27 del Regolamento Forestale 4 novembre 1851”
Questo diritto venne a cessare con l’entrata in vigore della legge 23 aprile 1865, n. 2252 che abolì in Sardegna tutti gli usi conosciuti sotto il nome di ademprivi. I terreni oggetto di usi ademprivili furono divisi in due parti, una delle quali divenne proprietà dei Comuni sul cui territorio ricadevano e l’altra fu ceduta alla società concessionaria delle ferrovie in Sardegna.
I Sestesi tuttavia continuarono ad approvvigionarsi di legna nei luoghi indicati solo che a chiedere l’autorizzazione per il taglio non doveva essere più l’amministrazione comunale, ma la richiesta, corredata dall’assenso dei proprietari dei boschi, andava presentata dai singoli cittadini direttamente alla Prefettura.
Per la perdita dei diritti di legnatico spettava al Comune di Sestu, quale indennizzo, un appezzamento di terreno nei salti demaniali dove solitamente legnavano i Sestesi. Gli amministratori comunali, in data 19 ottobre 1865, presentarono regolare domanda per ottenere ciò che a termine di legge spettava al Comune, ma il Collegio degli Arbitri, con provvedimento del 25 aprile 1867, disattese la richiesta anche perché nel frattempo i terreni ex ademprivili erano stati lottizzati e venduti ai privati, per cui non poteva essere più fatta nessuna assegnazione al Comune di Sestu. Allora questo, l’11 maggio 1867, convenne in giudizio davanti al Tribunale Civile di Cagliari i Comuni di Assemini e Uta perché lo indennizzassero monetariamente, ma anche il Tribunale, con sentenza del 28 ottobre 1867, disattese questi diritti condannando il Comune di Sestu al pagamento delle spese giudiziarie.
La Corte d’Appello, in nuova sede di giudizio, pronunciava la sentenza 9-29 agosto 1876 dichiarando i Comuni di Assemini e Uta tenuti a pagare il dovuto compenso al Comune di Sestu.
Dopo questa sentenza ci furono delle trattative tra i tre Comuni per comporre amichevolmente la controversia, senza concludere però, per cui il Comune di Sestu nel 1904 si rivolse alla Giunta d’Arbitri istituita con la legge 2 agosto 1897, non ottenendo comunque soddisfazione. Ripresero le trattative fra i tre senza esito e Sestu nel 1911 citò nuovamente in giudizio Assemini e Uta. Il Tribunale Civile di Cagliari pronunciava sentenza interlocutoria il 21 marzo 1914 affidando a un perito il compito di stabilire il compenso dovuto al Comune di Sestu, ma alla fine lo stesso Tribunale, male interpretando le disposizioni sugli ademprivili per l’ignoranza dei suoi componenti, disattendeva ancora una volta le aspettative del nostro Comune con sentenza del 31 dicembre 1916.
Così non restava che ricorrere di nuovo alla Corte d’Appello di Cagliari che, con sentenza del 12 luglio 1920, accoglieva le richieste del Comune di Sestu e condannava gli altri due a versargli la somma di 99.000 lire, inferiore a quella stabilita dal perito incaricato in precedenza dal Tribunale. Questa volta furono gli altri due Comuni a ricorrere in Cassazione e il Comune di Sestu, rappresentato in precedenza dall’avv. Ranieri Ugo, affidò le proprie difese al deputato avv. Francesco Cocco-Ortu, già Ministro d’Agricoltura.
Alla fine prevalsero le ragioni del nostro Comune che ottenne il giusto indennizzo per la perdita del secolare diritto di legnare gratuitamente nei terreni demaniali ubicati nei territori di Assemini e Uta. La somma introitata venne utilizzata per la costruzione del nuovo cimitero nel 1922, che venne benedetto col rito pontificale dall’arcivescovo di Cagliari, mons. Ernesto Maria Piovella il 29 dicembre 1922.
Nel mese di novembre 1934 l’Ufficiale Sanitario dott. Giuseppe Porru, indirizzava al Commissario Prefettizio di Sestu, la seguente relazione:
“In occasione di una recente visita fatta al Cimitero Comunale di Sestu, ho potuto rilevare alcune manchevolezze ed irregolarità alle quali è necessario porre immediato riparo. Colpisce a prima vista del visitatore il fatto che tanto l’arco di ingresso che i muri di cinta si presentano fortemente lesi, con delle filature profonde, a tutto spessore, tanto dei muri quanto dell’arco di ingresso, si ha l’impressione che la costruzione risalga a moltissimi anni mentre, appena nel 1929 sono stati ultimati i lavori. Anche il terreno si presenta tutto crepacci che approfondiscono per circa un metro e mezzo. Ciò denota la scelta poco felice dell’area destinata pel Cimitero e la natura poco adatta del terreno stesso, assai friabile e molto permeabile negli strati superficiali, talchè con la vaporazione dell’acqua insorbita ai primi forti calori si verificano crepacci dal basso in alto che ledono pian piano la compaggine dei muri. Sempre a causa della natura del terreno molti arredi marmorei appaiono già sconnessi nei punti di unione delle diverse parti ed a causa della friabilità del terreno e della cedevolezza di esso paiono debbano cascare da un momento all’altro. L’area del Cimitero appare suddivisa in due lotti dei quali, quello superiore, a quanto mi è stato riferito, viene destinato per sepolture comuni dei benestanti e quello inferiore per i poveri. Tale consuetudine non corrisponde ai concetti informativi delle leggi che regolano la polizia mortuaria la quale non consente che siano assegnati reparti speciali per l’inumazione delle salme degli abbienti. A questi è bensì consentito, come d’altra parte a qualsiasi cittadino, di formare tombe di famiglia, tenute a carattere perpetuo, mediante il pagamento dei diritti previsti dai regolamenti vigenti in ciascun comune.
Altro inconveniente da me accertato è quello relativo alla mancanza dell’ordine numerico e nel contempo cronologico, delle tumulazioni. Infatti non appare alcun cippo numerato che corrisponda a ciascuna sepoltura, né fa riscontro alcun registro di tumulazioni affidato al custode del Cimitero. Ne consegue che per ritrovare una fossa che racchiuda le spoglie di un defunto, ove non vi sia stata cura da parte dei familiari di contraddistinguere la fossa con una croce, una lapide, un modo qualsiasi, occorre andare a tentoni per poter identificare con certezza una sepoltura dall’altra. Si ravvisa pertanto la necessità di eliminare al più presto gli inconvenienti lamentati, e la premura di affidare la custodia del Cimitero oltre che al becchino, ad uno speciale incaricato del Comune affinchè il recinto dei morti sia mantenuto con quel decoro e rispetto che caratterizza il grado di civiltà raggiunto dal nostro popolo.”
ottobre 2019 – Franco Secci